Giovedì 25 Giugno la polveriera ospiterà la presentazione di DIARIO DI ZONA (edizioni Alegre) con l'autore Luigi Chiarella (in arte Yamunin).
a partire dall ore 20:00 apericena
ore 21:15 inizio presentazione
Luigi Chiarella
(Catanzaro 1976) attore e drammaturgo, lavora in teatro dal 1998. Tra
un impegno teatrale e l’altro ha lavorato anche come postino,
venditore, magazziniere, libraio, operaio. Cura il blog “yamunin”.
In rete lo trovate all'indirizzo https://twitter.com/yamunin
La recensione di
Diario di zona uscita su L'Indice dal titolo: «Precariato in
Wonderland» (ripresa da
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20923 )
di Franco Pezzini
Che il cielo della
letteratura sia solcato dagli UNO (Unidentified Narrative Objects ,
come li definiscono con ironia da laboratorio i Wu Ming) non
rappresenta in sé un fatto nuovo. A prescindere da ogni meticciato
tra generi (frutto essi stessi, lo sappiamo, di etichette di comodo)
è da sempre che testi di imbarazzante collocazione formale ampliano
i confini del letterario: inchieste o memoriali che diventano
romanzi, saggi brevi modellati in novelle, e così via. Ciò che
piuttosto pare nuovo è il tipo di attenzione a questi oggetti alieni
e al dato stesso di un’irriducibilità agli schemi, spesso in
rapporto con forme di resistenza etica e politica. E non stupisce che
ora gli UNO assurgano a oggetto specifico di una nuova collana,
“Quinto Tipo” (di incontri ravvicinati, a continuare ironicamente
la metafora ufologica) diretta da Wu Ming 1 per le romane Edizioni
Alegre.
Che già in passato,
va detto, ne avevano offerto esempi significativi: uno tra tutti
quell’ Amianto. Una storia operaia di Alberto Prunetti riproposto
da Alegre nel 2014 in versione arricchita (prefazione di Valerio
Evangelisti, postfazione di Wu Ming 1 e Girolamo De Michele, pagg.
192, euro 14,00) dopo la prima edizione per Agenzia X, 2012 (cfr.
“L’indice”, 2013, n. 2). Un grande libro che salda con
incredibile equilibrio (vivacità, commozione, ironia) la memoria
personale e familiare, l’inchiesta sul lavoro, la saga operaia e il
romanzo (quasi) picaresco, restituendo voce a un intero popolo di
lavoratori dell’acciaio in un’Italia che affastella leggi
sull’Ilva e pratiche sui morti d’amianto. Per importanza civile,
qualità e onestà di narrazione, Una storia operaia di Prunetti è
sicuramente uno dei grandi libri italiani degli ultimi anni.
I temi del lavoro e
della denuncia sociale sposati a una convincente cifra narrativa
riemergono ora nel primo titolo di “Quinto tipo”, Diario di zona
di Luigi Chiarella in arte Yamunin (2014, pagg. 319, euro 16).
L’epoca sono i primi anni Dieci: Chiarella, uomo di teatro,
calabrese da anni immigrato in una Torino che sta imparando a
conoscere (nel bene e nel male), si trova all’improvviso senza
lavoro. Inizia così, nell’impennare dell’ansia, una raffica di
vani tentativi di collocarsi e, dopo molto peregrinare, l’uomo deve
infine accettare un impiego precario da letturista dei contatori
dell’acqua. L’esperienza è all’inizio traumatica: suonando i
campanelli riscontra (come temeva, ma non a tal punto) più
sospettosa ostilità che collaborazione, e tutto un codazzo di
reazioni sociali frutto in parte della “nuova” crisi, in parte
legati a problemi più antichi, specifici o meno di Torino.
Di fronte a un
lavoro quotidiano che impatta su di lui in modo tanto pesante,
Chiarella reagisce però con gli strumenti che gli sono propri: e
inizia a raccontare sul blogSatyrikon le avventure delle proprie
giornate in una Wonderland urbana tra pulsantiere e cantine, androni
e pozzetti. Riproducendo dialoghi, ricostruendo situazioni,
rievocando sensazioni e sentimenti degli interlocutori e naturalmente
propri: dove lo stile del resoconto risente certo della sua vocazione
teatrale (scambi verbali straordinari, un’attenzione vivida alla
mimica e al senso complessivo della scena, grande fluidità negli
stacchi da un incontro all’altro) ma con l’assoluta autenticità
di un’esperienza umana.
Tale materiale è
oggi riproposto, coordinato e rivisto, nel volume per Alegre:
qualcosa che non rappresenta semplicemente un’ibridazione
sperimentale di generi narrativi, ma quel tipo di esplosione di forme
note che genera energia narrativa. Chiarella offre così un testo che
è insieme memoria dal ventre buio del lavoro in Italia (tanto spesso
sfruttato, avvilente, deumanizzante) e inchiesta sociale sulla vita
dietro i muri dei palazzi, occhieggianti di una popolazione in
sindrome da assedio; che è album fotografico (per l’intensità
delle inquadrature in cui ferma bozzetti, istanti di vita urbana,
emozioni e moti di viscere) e impagabile studio linguistico, con
tanto di rese grafiche della Babele di idiomi neppure più
semplicemente riconducibili a varianti dialettali. Che è, ancora,
un’incredibile mappa di una città ignota ai suoi abitanti, in
obliquo rispecchiarsi in altre infinite città invisibili di tutta
Italia (il lettore subalpino può avvicinarla insomma con lo stesso
sapore di perturbante che avvertono i non-torinesi); una mappa che
lascia anzi decifrare (come, qualcuno fantastica, quella di Piri
Reis) i profili di terre nascosti dai ghiacci del quotidiano. E
attraverso tutti questi motivi ma insieme per il suo respiro e
intensità, Diario di zona finisce col rappresentare anche un grande
romanzo urbano.
Dove troviamo di
tutto. Dall’incontro inatteso con la nipote di Che Guevara alla
memoria di Salgari, dal meteorite custodito come un Palladio nel
ventre di una collina sul Po agli scambi di battute con un vecchio
mafioso, dalle battaglie ideali su scuola pubblica e no-Tav allo
strapotere cittadino di una squadra di calcio legata (guarda caso) a
una grande azienda automobilistica. Chiarella lavora sodo ma intanto
ascolta, parla, assembla un memoriale che contro ogni pregiudizio
(che sarà mai, la vita di un letturista) incalza invece il lettore
pagina dopo pagina.
Muovendosi in
bicicletta, con un libro per i tempi morti e un’ideale e
ricchissima colonna sonora nella testa e nella voce (dove letture e
musica costituiscono un vero e proprio contrappunto alle avventure
quotidiane) Chiarella costruisce così il resoconto di
un’esplorazione nel profondo di quei visceri spaziali e sociali che
tanto rivelano di una comunità. Scopre una città dalle porte sempre
più chiuse (sospetto, ostilità, tanta paura), ma anche improvvise
resistenze di calore umano, specie dei più anziani; scopre miopie e
memorie, a volte intenerite o straziate, mentre latita la speranza;
scopre rabbie covate, a volte grette di razzismo più o meno
esplicito, ma altrove mosse da indignazioni più alte. Ci sono i
ricchi, certo, magari arroccati in vere e proprie case-fortezze; ma
soprattutto sacche diversificate e diffuse di povertà (economica,
culturale, affettiva) tra edifici nati male o male conservati,
caseggiati in semi abbandono, aree lasciate a se stesse. A mappare a
quel punto una diversa toponomastica, Chiarella prende però ad
annotare i nomi dei partigiani caduti disseminati sulle lapidi lungo
le strade: ricordi che riportano ai fondamenti di qualche vita
civile, contro ogni vieta retorica o strumentalizzazione.
Diario di zona ,
dunque, perché “zone” sono le porzioni numerate della città
battute dai letturisti; ma il termine richiama anche, in senso meno
tecnico, brandelli di un corpo urbano senza riferimento a un centro.
È infatti periferia dove vedi le cose da un punto di vista marginale
rispetto alla città in bella mostra, quella dei lustrini e dei
manifesti arguti coi giochi di parole, delle iniziative-vetrina e dei
grattacieli puntati tra amministrazioni e banche. È periferia la
stragrande maggioranza della città, e persino il centro colto da
certe angolature, come sottoterra, negli infernotti o comunque “da
sotto”, in tutti i sensi possibili. Grattando appunto sotto la
superficie, scavando sotto l’immagine di figura e in qualche modo
farlocca (non foss’altro per lo scarto percentuale tra chi la
incarna e il resto della popolazione) Chiarella riflette e fa
riflettere tra rabbia, commozione e ironia sulle urgenze di una
convivenza (presunta) civile. E dal suo punto di vista periferico (il
lavoro precario, faticoso e avvilente, destinato oltretutto a
un’amara e grottesca conclusione) consegna un romanzo che va ben
oltre il semplice cahier de doléances o uno specifico torinese, e
meriterebbe un attento ascolto.
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